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sabato 19 aprile 2008

La donna-bisogno

La donna-bisogno è una figura allegorica, ha mammelle e braccia grandi, ed è colei che si invoca quando il cibo scarseggia e si vuole che lei accorra per calmare il pianto e la disperazione.
La donna-bisogno è Dea degli uomini della terra di sale, ma non solo. La adorano gli uomini che dicono di non sapere amare e quelli che pronunciano la parola amore troppo presto, o troppo tardi, solo da lontano. Con braccia grandi e forti, come una statua, essa regge e consola.
La donna-bisogno ha le mani lunghe, con esse scalda e rinfresca, ed è nuda perchè non ha vergogna di accarezzare, con umiltà nei palmi, un corpo stanco, uno assetato, uno che emani un odore acre.
Gli uomini che amano la donna-bisogno la venerano senza un corpo, essa giunge come puro spirito ad aggiustare le cose, poi evapora di nuovo ed è assenza impalbabile.
Se ne va, e l'uomo che la venera come una dea non ne sente la mancanza, dimentica che sia esistita e che il benessere di ora sia dipeso dall'intervento suo, di poco prima. L'uomo che le è devoto, la rinnega una volta ristabilita una condizione di benessere ottimale.
Egli è sazio, è pulito, i sensi sono appagati, non ha sonno e non ha sete. Allora egli può dire Io non ho alcun bisogno! e sarebbe ingiusto accusarlo di mentire. Dovrà passare del tempo, prima che egli sappia formulare di nuovo parole d'amore. Vieni da me. Saprà essere dolce e saprà intenerire l'istinto di chi c'è, per esaudire i desideri giusti nella persona di chi li sa esprimere.
La donna-bisogno darà ancora, e imparerà la ragione per cui essa è meno di un fantasma. La dimenticanza è un'assassino che uccide oltre la morte, perchè chi muore non è come chi non è esistito mai. La donna-bisogno non è mai esistita, se non in sogno, essa non ha neppure un nome e le sue fattezze possono cambiare. Purchè ci siano mani e mammelle, purchè ci sia un canto crepuscolare.

Il prestanome

E' una figura retorica da cui non si esce, non nel presente, non in quello mio. Sono un prestanome. Prima di me lo sono state Beatrice, Charlotte, Dulcinea e mille altre donne, in così tanta parte della letteratura occidentale scritta da mani di uomo.
Il poeta irlandese, il critico scrittore siciliano, il musicista jazz, con l'animo inquieto e quello pop - impulsivo - poi c'è il sedicente promotore dell'arte, tutti sono uomini che sto incontrando, nel presente del trentesimo anno.
Paradossalmente, quelli che hanno un'indole artistica e hanno letto qualche libro - quelli che amo - sono coloro che hanno una visione delle donne più pregiudiziale, come fossero creature distanti dalla terra.
Al contrario la donna è un'ancora o un alga, che si tiene salda al fondale. In superfice alcuni vedono solo una fune o - di una foglia longilinea - la punta verde che fluttua al muoversi delle acque marine. A quella vista si fermano, forse perchè a loro appare già bella così, tanto che non vogliono scoprirne aspetti nuovi.
Gli uomini di questo tipo dicono Basta così! Ho visto abbastanza, poi abbassano l'attenzione e lo sguardo e si danno a scrivere le loro poesie d'amore romantico, in cui invocano un nome uguale a quello mio.
Spediscono a me i loro componimenti, eppure io non sono quel nome e quando lo reclamo mio e vorrei che mi amassero con la vicinanza - e quando lo rifiuto e sono io che non voglio seguirli - essi, in ogni caso, non mi avranno compreso.

lunedì 14 gennaio 2008

Chi giura per Dio?

Nel sonno indolente pomeridiano
Ho rivisto quel sorriso antico
Ti ho preso la mano rugosa
Non era fredda né in sogno, né ieri
Come dondolavo allegra!

Ti ho chiamato madre
Ma la madre sarebbe tornata inattesa
Ed io sarei stata spartita.

Resta il segreto, duplice come il mio nome
Che svela l’immaginazione.

C'era un demone in sogno, a testa in giù
I suoi denti stracciarono il velo della mia culla
Sembrava placenta.

Chi era?

mercoledì 28 novembre 2007

Scarecrow [terza parte]

Ecco, quel pomeriggio al parco credevo che tra di noi fosse fiorita una sintonia perfetta, atavica, Luna, assieme ad una comunicazione più profonda e fluida, nuova. L’antico vichingo aveva ritrovato la sua giovane apache, l’amore di sette vite.
Avevi gli occhi arrossati ed eri ancora commosso, poi ti sei offerto di lasciarmi la tua giacca di lana pesante prima d’andare, perché volevi che la indossassi per la notte, avrai qualcosa di mio, se avrai paura, dicevi.
Credevo che l’avessi detto perché avevi capito che quella notte sarei andata incontro ad uno dei miei scarecrow e volevi farmi sentire protetta. Declinando ho voluto mostrarti e a me stessa che in futuro non avresti dovuto farmi da padre.
Anch’io potevo essere una guerriera, e tenerti per mano sul sentiero che percorriamo insieme incontro alla vita, invece che sederti ancora in grembo, come una bambina.
Mentre tu eri via da Milano, a respirare in quel paradiso di campagna veneta, avrei affrontato da sola, e di notte, uno scarecrow che figura tra i miei più minacciosi.
L’avrei fatto quella notte, niente più attese, perché la malattia mi faceva sentire invincibile al sonno e alla paura, almeno finchè restavo al chiuso della mia piccola stanza verde e accogliente come un baccello.
Come le urne pregiate finiscono svilite dal turismo museale, anche l’epilogo di questa storia è stato diverso dal trionfo giallo-fucsia haringiano della mia immaginazione.
Al mattino successivo non ero vittoriosa di fronte ad una tribù di vichinghi e apache piumati. Non erano riuniti insieme fuori dalla finestra della mia stanza-baccello per la giusta celebrazione del mio coraggio di pipistrello.
C’era mia sorella invece, me la ricordo seduta sul bordo del mio letto bagnato d’urina - ricordo il suo volto apprensivo - e c’era il sorriso di Viromar che batteva una mano sul petto ritmicamente per me, per ricordarmi di tenere regolare il respiro e il battito del mio cuore provato dall’insonnia protratta.
Non c'era Luna, ma ricordo la sua voce al telefono che incomprensibilmente faceva riferimento alla nostra conversazione durata quattro ore lunghe come loop, diceva e poi che era come se avessi una gamba rotta da far curare.
Traeva la conclusione che dovessero portarmi al pronto soccorso al più presto.
La mia conclusione era che avesse tradito il nostro patto d’alleanza contro gli scarecrow. La storia della gamba rotta suonava come un bluff a buon mercato.
Giorni dopo Luna mi ha detto con nonchalance quel che aveva pensato a proposito del racconto su mio padre che avevo tirato fuori quel pomeriggio.
Sulla strada per l’eden veneto, allontanandosi dal parco e da me, aveva pensato che il ricordo di quelle lacrime in balcone non asciugate, poteva essere un ricordo pesante da portare con me.
Mi veniva da ridere, forse. Le parole di Luna erano appena state per me una seconda somministrazione di nonsense amaro che quel ragazzo che fin qui ho chiamato Le Pleiadi mi aveva rifilato due anni prima. E finalmente avevo capito la portata del mio fraintendimento, anche con Luna.
Winehouse like I cheated myself, like I knew I would.
Dopo, dentro di me era la monarchia del senso di disillusione dell’apache - abbandonata dopo la sconfitta – e nei giorni seguenti ho calpestato come un tappeto da bagno quel che era rimasto del legame tra me e Luna. Viva la nonchalance.
Ora è ora. La monarchia ha vita breve nel mio cervello-stomaco polifonico ed io domando al Luna-me che mi abita dentro Hai avuto paura?
Probabilmente aveva avuto paura già Le Pleiadi, della mia spada sguainata contro uno scarecrow piantato nella mia memoria, che ero decisa ad affrontare.
Mi chiedo se la parola affrontare sia tanto energica da proiettare l’ombra lunga d’un gesto d’evirazione.
Ma il misreading non sarebbe negli occhi del lettore-maschio-bianco-occidentale, in questo caso, più che un errore nella mia penna, se secondo il Thesaurus con affrontare io sto in un’ area semantica diversa e non è come se avessi scritto estirpare, sradicare, togliere, divellere, asportare, annientare, abolire, annullare, vincere, debellare.
Affrontare ha il sapore della battaglia, si faccia da parte chi non vuol vedere, perchè posso vivere senza la codardia di uno sguardo basso al mio fianco.
Come la scherma e le arti marziali sarà la mia battaglia, dove il nemico si guarda levisianamente negli occhi, per conoscere ed esorcizzare, perché chi guarda nel volto dell’altro, non uccide.
Per diventare un’adulta e guadagnare il posto di apache al banco dei capi tribù, perchè la donna sia tale finalmente e non resti prigioniera della bambina è necessario che la solitudine e l’abbandono non mi facciano più paura.

domenica 18 novembre 2007

Scarecrow [seconda parte]

La psicoterapia fa una cosa simile, mi pare, ed io, oltre che nel ruolo di paziente, ogni tanto mi avventuro in quello della terapista improvvisata, per usare quest'arte di neutralizzazione degli scarecrow a beneficio delle persone che amo.
Ma mi capita di fallire miserevolmente, perché la terapia è una magia alla pari dei sortilegi della strega africana Sicorax, ed ha bisogno di un apprendistato, che non ho fatto e impugno una bacchetta bizzosa, che a volte mi sfugge di mano. Quello che faccio mi si rivolta contro, quando succede.
Così è successo con quel ragazzo che ho chiamato Le Pleiadi e, tornando al racconto di quel pomeriggio con Luna, anche allora devo aver esagerato con i miei poteri di strega.
La magia che volevo far avverare lì al parco, non era roba da poco a dire la verità, perché aveva a che fare con la parola, che per le streghe della mia discendenza (abbiamo un legame antico con le nove muse) è nella rosa delle magie supreme.
Desideravo che Luna prendesse coscienza di certi nodi muti del suo linguaggio, che declinano cosi tanto del suo sè e del suo inerme far del male.
Allora, come un ricercatore devoto avevo preso tra le palme delle mani guantate il suo ricordo doloroso, riemerso, per metterlo in una barattolo sterile e l’avevo etichettato ricordo doloroso di Luna, numero 23.
Come le fattucchiere domestiche, poi, avevo sistemato, nella credenza accanto, una scatola di alluminio con dei decori di pini sul fronte. C’erano dentro delle foglie secche di menta tritate, che sarebbero servite da rimedio naturale quando il suo ricordo doloroso, come un male estirpato, gli facesse di nuovo male.
Al bisogno, era necessario masticare le foglie di menta dopo averle imbevute nell’acqua calda, come per farne una tisana. Sapevano di chewingum dopo la preparazione e il male si attenuava fino a scomparire del tutto, portato via dai fumi dell'aroma balsamico.
Luna non lo sa, ma dentro a quel barattolo c’era il ricordo che lo fa biascicare quando dice di si e di no e lo fa parlare come dentro di sè, come se fosse diretto al suo stomaco, invece che a chi lo sta ad ascoltare.
Luna non lo sa, ma il numero 23 è quel ricordo che gli fa mettere gli aggettivi sempre al posto sbagliato o glieli fa ripetere uguali, in situazioni che uguali non sono. Luna non sa nemmeno che in quel barattolo c’è il ricordo che gli impedisce di chiamare alcune cose col proprio vero nome.
Tutte le volte che Luna avrebbe detto di nuovo ammore avrei preparato per lui una tazza fumante e odorosa di menta e così lui avrebbe detto amore di nuovo con una sola m e tranquillo sarebbe stato l’aggettivo usato per il sonno di un bambino, non per un party di capodanno.
Con una tazza di menta, dopo averne masticato le foglie rinfrescanti, Luna non avrebbe definito il sesso scomodo, di nuovo, e avrebbe capito che suo Padre si chiama Matteo, solo Matteo. Cose così.
Che forse a Luna tutto sommato non gliene frega niente di sapere. Nè del fatto che io abbia trovato un rimedio per un suo malanno che, come un piccolo callo al tallone non gli da noia, e a lui, che non è certo un perfezionista, poco gli importa di volerlo curare.
Eppure perché facevo tante magie davanti ai suoi occhi distratti, tutto il giorno infilata dentro a quel laboratorio di chimico come un inventore zelante?
Desideravo che Luna mi accompagnasse nel percorso che ci conduce a conoscere il nostro sè. Volevo che si specchiasse nell’uomo che è, e che, riconoscendo la sua immagine di antico guerriero vichingo allo specchio, mi dicesse Dove lo mettiamo, amore mio, questo mio ricordo doloroso numero 5, perchè non sia più uno scarecrow che mi impedisce di declinare chiaramente il mio sè e l'amore nel presente, ma diventi un memento del passato, un monile nobile da portare come un talismano o da tenere sulla pelle come la cicatrice che testimonia una battaglia vinta?
Un giorno, sai, vorrei raccontarlo a chi saprà ascoltare, la storia di quella strana maschera che è appesa alle pareti del mio studio. E i figli che avremo, chissà se saranno curiosi come siamo stati noi, d’una storia ombrosa, alla Edgar Allan Poe, che mette timore, ma non avrà angoscia, perchè non ne è rimasta in noi, amore.

E ti avrei detto Luna, amore, lo metteremo dove vorrai, sopra la scrivania per esempio, nel tuo studio, accanto allo specchio forse, perchè pare una maschera africana, ed è come un altro del tuo volto ossuto, ha lo stesso sguardo michelangiolesco.
Il tuo ricordo darà identità al tuo sé e allo spazio che vivi, e saprà farlo meglio di quei fondi di birra di carta, polverosi e sbiaditi, che collezioni stancamente negli anni e che non mi sono mai davvero sembrati belli. Perchè ti piacciono, mi sapresti dire?

[End of part two]

scarecrow [prima parte]

Il pranzo di oggi è riso in brodo con formaggio, di secondo una buona bistecca e contorno di pomodorino e finocchio, the wine was red or nothing, like Ane Brun sings.
Giorno per giorno divento una cuoca più attenta e contenta perché ho un segreto, ed è che quando cucino risuona nella testa la voce di quella bambina immaginata, che non ho ancora avuto. Preparo il piatto più buono e odoroso possibile, di bei colori, per lei.
Luna pensa che a lei piacerebbe tutto.
Poco fa mentre il riso ribolliva nel brodo vegetale, stavo parlando al telefono con Gea, che è venuta a trovarmi in ospedale nei giorni passati e i suoi abbracci soffici mi hanno aiutata a sentire l’abbraccio di madre della vita, lattiginoso. La capisco ora, Gea, e capsico meglio la sua malattia, quanto la sua presenza in ospedale mi faceva sentire capita.
Vorrei dire ancora qualcosa a Luna in questa domenica troppo, troppo lunga. E' qualcosa che riguarda un fraintendimento che ci è capitato di recente e che a me era già capitato di vivere con un ragazzo che chiamerò Le Pleaiadi.
Quando il malinteso era capitato con Le Pleiadi, mi aveva meravigliato che potesse succedere una cosa così, tra un ragazzo e una ragazza che si vogliono bene. Adesso che il rapporto profondo che ho con Luna mi aveva fattto credere d'essere a prova di malinteso, mi ritrovo meravigliata ancora più profondamente, intontita dalla sorpresa.
Qualche giorno fa, al parco su cui si affaccia il retro di casa mia, Luna si è commosso profondamente, mentre gli raccontavo di un episodio della mia infanzia.
Quel pomeriggio d'umido sereno, il punto di divergenza tra la mia veduta e la sua, sulla fine della nostra storia, è rimasto preso come una zanzara dentro all’ambra, catturato dentro a quelle lacrime. Non c’è un domani per me e Luna insieme, questo si sa, come si saprà qual'è la mia visione delle cose, perché sono qui a scriverla.
E svelo ora che, ai miei occhi, Luna quel pomeriggio era triste per me solo apparentemente, ma la commozione più autentica era sua. Sentivo profondamente, mentre piangeva, che erano riaffiorati alla sua memoria momenti del suo vissuto, percorsi da quella stessa emozione.
Sull'isola de La Tempesta viveva - prima dell'approdo di Prospero - una strega africana capace di ogni sortilegio. La malattia mi rendeva poderosa come la strega shakespiariana quel pomeriggio, ed io stavo usando il mio racconto stregato come un mestolo per far emergere i suoi ricordi, rimestavo lentamente, amalgamando l'anima di Luna come una pozione densa.
E come, con un po’ di fortuna, da un sito archeologico si tirano fuori vecchie urne preziose, per ripulirle e riporle nelle teche di un museo, così, quel pomeriggio, io stavo scavando , coi guanti e il tocco lieve del ricercatore devoto, per dissotterrare i tesori funebri di Luna.
Le vecchie urne pregiate diventano comunemente asettiche nei musei e noiose allo sguardo dei visitatori perchè, ripulite dall’arcano che le aveva ammantate, restano nude. Il fascino che l’ignoto ritiene dentro di se, come un’ostrica la sua perla lucida, svanisce.
A dire la verità, che le vecchie urne pregiate vengano deflorate del loro potere magico a me dispiace, ma rendere innocuo uno scarecrow impalato da qualche parte dentro di me, perchè sia oggetto di riflessione e non resti a nutrire d’ansia e di malattia le cantine della mia immaginazione, quello mi andrebbe bene, proprio bene.

[end of part one]