domenica 18 novembre 2007

Scarecrow [seconda parte]

La psicoterapia fa una cosa simile, mi pare, ed io, oltre che nel ruolo di paziente, ogni tanto mi avventuro in quello della terapista improvvisata, per usare quest'arte di neutralizzazione degli scarecrow a beneficio delle persone che amo.
Ma mi capita di fallire miserevolmente, perché la terapia è una magia alla pari dei sortilegi della strega africana Sicorax, ed ha bisogno di un apprendistato, che non ho fatto e impugno una bacchetta bizzosa, che a volte mi sfugge di mano. Quello che faccio mi si rivolta contro, quando succede.
Così è successo con quel ragazzo che ho chiamato Le Pleiadi e, tornando al racconto di quel pomeriggio con Luna, anche allora devo aver esagerato con i miei poteri di strega.
La magia che volevo far avverare lì al parco, non era roba da poco a dire la verità, perché aveva a che fare con la parola, che per le streghe della mia discendenza (abbiamo un legame antico con le nove muse) è nella rosa delle magie supreme.
Desideravo che Luna prendesse coscienza di certi nodi muti del suo linguaggio, che declinano cosi tanto del suo sè e del suo inerme far del male.
Allora, come un ricercatore devoto avevo preso tra le palme delle mani guantate il suo ricordo doloroso, riemerso, per metterlo in una barattolo sterile e l’avevo etichettato ricordo doloroso di Luna, numero 23.
Come le fattucchiere domestiche, poi, avevo sistemato, nella credenza accanto, una scatola di alluminio con dei decori di pini sul fronte. C’erano dentro delle foglie secche di menta tritate, che sarebbero servite da rimedio naturale quando il suo ricordo doloroso, come un male estirpato, gli facesse di nuovo male.
Al bisogno, era necessario masticare le foglie di menta dopo averle imbevute nell’acqua calda, come per farne una tisana. Sapevano di chewingum dopo la preparazione e il male si attenuava fino a scomparire del tutto, portato via dai fumi dell'aroma balsamico.
Luna non lo sa, ma dentro a quel barattolo c’era il ricordo che lo fa biascicare quando dice di si e di no e lo fa parlare come dentro di sè, come se fosse diretto al suo stomaco, invece che a chi lo sta ad ascoltare.
Luna non lo sa, ma il numero 23 è quel ricordo che gli fa mettere gli aggettivi sempre al posto sbagliato o glieli fa ripetere uguali, in situazioni che uguali non sono. Luna non sa nemmeno che in quel barattolo c’è il ricordo che gli impedisce di chiamare alcune cose col proprio vero nome.
Tutte le volte che Luna avrebbe detto di nuovo ammore avrei preparato per lui una tazza fumante e odorosa di menta e così lui avrebbe detto amore di nuovo con una sola m e tranquillo sarebbe stato l’aggettivo usato per il sonno di un bambino, non per un party di capodanno.
Con una tazza di menta, dopo averne masticato le foglie rinfrescanti, Luna non avrebbe definito il sesso scomodo, di nuovo, e avrebbe capito che suo Padre si chiama Matteo, solo Matteo. Cose così.
Che forse a Luna tutto sommato non gliene frega niente di sapere. Nè del fatto che io abbia trovato un rimedio per un suo malanno che, come un piccolo callo al tallone non gli da noia, e a lui, che non è certo un perfezionista, poco gli importa di volerlo curare.
Eppure perché facevo tante magie davanti ai suoi occhi distratti, tutto il giorno infilata dentro a quel laboratorio di chimico come un inventore zelante?
Desideravo che Luna mi accompagnasse nel percorso che ci conduce a conoscere il nostro sè. Volevo che si specchiasse nell’uomo che è, e che, riconoscendo la sua immagine di antico guerriero vichingo allo specchio, mi dicesse Dove lo mettiamo, amore mio, questo mio ricordo doloroso numero 5, perchè non sia più uno scarecrow che mi impedisce di declinare chiaramente il mio sè e l'amore nel presente, ma diventi un memento del passato, un monile nobile da portare come un talismano o da tenere sulla pelle come la cicatrice che testimonia una battaglia vinta?
Un giorno, sai, vorrei raccontarlo a chi saprà ascoltare, la storia di quella strana maschera che è appesa alle pareti del mio studio. E i figli che avremo, chissà se saranno curiosi come siamo stati noi, d’una storia ombrosa, alla Edgar Allan Poe, che mette timore, ma non avrà angoscia, perchè non ne è rimasta in noi, amore.

E ti avrei detto Luna, amore, lo metteremo dove vorrai, sopra la scrivania per esempio, nel tuo studio, accanto allo specchio forse, perchè pare una maschera africana, ed è come un altro del tuo volto ossuto, ha lo stesso sguardo michelangiolesco.
Il tuo ricordo darà identità al tuo sé e allo spazio che vivi, e saprà farlo meglio di quei fondi di birra di carta, polverosi e sbiaditi, che collezioni stancamente negli anni e che non mi sono mai davvero sembrati belli. Perchè ti piacciono, mi sapresti dire?

[End of part two]

2 commenti:

Anonimo ha detto...

ciao

Anonimo ha detto...

Non ho tutti capito, ma penso che scrivi magnifico :-)